Presto, le nostre mamme diventarono migliori amiche, impedendoci di separarci, nonostante alle superiori frequentassimo scuole diverse.
Io sognavo di diventare una giornalista, quindi scelsi il liceo classico, mentre lui, appassionato di cucina, si iscrisse all’istituto alberghiero.
Negli anni avevamo preso l’abitudine di fare tutto insieme. Così, per festeggiare la maturità, decidemmo di partire per Atene, soltanto noi due.
Ricordo ancora quel viaggio come il più emozionante della mia vita.
Non eravamo mai stati all’estero, se non con le gite scolastiche e, quindi, separatamente.
Condividere questa vacanza con lui rendeva tutto più speciale.
Scegliemmo di alloggiare in una stanza con letto alla francese, per risparmiare. In fondo avevamo dormito insieme milioni di volte, a casa dei miei, e l’imbarazzo di sicuro non ci apparteneva.
Quella sera, però, Micky mi abbracciò più forte del solito.
“Te lo devo dire – sussurrò -. Io credo di amarti”.
Rimasi di ghiaccio. Non avevo mai considerato l’idea che tra noi potesse esserci dell’altro. Senza lasciarmi il tempo di riflettere, mi baciò.
Ecco, ancora oggi, a distanza di vent’anni, lo rimprovero giocosamente per aver preso quell’iniziativa.
Difatti, ricambiai il suo bacio, e in un batter d’occhio ci ritrovammo a fare l’amore.
Non ci fu bisogno di aggiungere una sola parola. Forse, eravamo soltanto predestinati.
Tornammo in Italia, mano nella mano, annunciando a parenti ed amici di esserci fidanzati.
I nostri genitori, probabilmente, non attendevano altro.
Bene, questo è l’incipit della mia meravigliosa storia d’amore con sorpresa.
Passarono sei anni.
Michele aveva avviato una sua pizzeria, ed io lo aiutavo stando alla cassa, mentre di giorno lavoravo come segretaria nello studio di un dentista.
Quella sera, però, il locale era stranamente chiuso.
Provai a telefonargli, preoccupata, ma non rispose.
Pensando si trattasse solo di un contrattempo, quindi, decisi di aprire con la mia copia delle chiavi, e di aspettarlo in struttura.
Non appena alzai la serranda fui travolta da un odore intenso di tulipani, e udii una musica lieve ma speciale. Accesi la luce e, difronte a me, ecco uno striscione immenso con su scritto “SPOSAMI!!”, contorniato da tantissimi fiori.
Il cuore prese a pulsare come mai prima d’allora, ma del mio amato non c’era traccia.
“Micky, ma dove sei? – chiesi -. Certo che ti sposo. Sì, sì, mille volte sì!”.
Solo in quel momento, Michele mi corse incontro. Ci abbracciammo e baciammo forse per venti minuti, prima che qualcuno potesse pronunciare un’unica parola.
“Uh, l’anello! Ho dimenticato l’anello. Qualcuno ne ha uno?”, urlò.
Ed immediatamente, dalla saletta fumatori, sbucarono mia madre, mio padre, gli amici. C’erano proprio tutti, e presero a cantare la nostra canzone, “Mille giorni di te e di me” di Claudio Baglioni.
Ci sposammo l’anno seguente, nella chiesetta di paese in cui avevamo celebrato assieme tutti i sacramenti.
Don Angelo sottolineò ai presenti che raramente gli capitava di unire in matrimonio due anime che avevano davvero percorso tutta la vita insieme, e che il nostro amore non avrebbe potuto conoscere crisi.
Difatti, la convivenza fu persino più bella di quanto avevamo immaginato.
Dopo un paio d’anni decidemmo di avere un bambino. Volevamo avere tre figli, forse perché entrambi non avevamo fratelli, e sognavamo da sempre una famiglia numerosa.
Eravamo convinti che sarei rimasta incinta al primo colpo, ma così non fu.
Passarono due mesi, poi tre, sei, sette, otto.
La mia ginecologa continuava a tranquillizzarmi, sostenendo che la gravidanza sarebbe arrivata soltanto quando avrei smesso di pensarci.
Noi, invece, avremmo preferito recarci direttamente in una clinica per l’infertilità.
Però – almeno così ci dissero gli specialisti che consultammo -, essendo abbastanza giovani, non potevamo fare nulla di più prima che fossero trascorsi due anni di tentativi naturali.
E così cominciai a prendere pillole su pillole. Integratori, ormoni, consigli della nonna, della zia. Ma nulla.
Finalmente, trascorsi i tempi indicati, potemmo sottoporci a controlli più specifici.
L’esito fu irrimediabile. Non avremmo potuto avere figli. Mai.
E qui cominciò l’incubo.
“Di chi è la colpa?”, fu la domanda più ricorrente tra amici e parenti, come se io fossi innocente e Michele reo di aver commesso non si sa quale misfatto, o viceversa.
Non confessammo mai chi dei due avesse dei problemi di sterilità, perché eravamo una cosa sola, ed era giusto che lo restassimo “in salute e in malattia”.
Mia madre e mia suocera presero a parlarsi sempre meno. Ciascuna delle due era convinta che questa fantomatica colpa fosse dell’altra parte.
Sebbene molte volte gli avessimo spiegato di non impicciarsi, continuarono a chiedere spiegazioni, accrescendo la loro rivalità.
Invece di aiutarci ad affrontare la vicenda, buttavano al vento anni di amicizia indissolubile, diventando sempre più ostili, tra loro e col mondo.
Intanto, noi cercavamo una soluzione. Diventare genitori era un sogno a cui non potevamo rinunciare.
Così prendemmo a seguire gli iter della stimolazione ovarica, con tutti gli oneri del caso.
Parallelamente, consultammo un’amica assistente sociale per chiederle consiglio su un’eventuale adozione.
Ci spiegò che, per cominciare, avremmo dovuto consegnare una serie di documenti al tribunale per minori d’appartenenza. Si trattava di certificati medici, il casellario giudiziale, la dichiarazione dei redditi, le buste paga, la dichiarazione di assenso all’adozione da parte dei nostri genitori.
Insomma, sembrava dovessimo sottoscrivere un mutuo.
L’idea che i tempi fossero lunghissimi, e che nessuno poteva garantirci che saremmo stati idonei ad un’adozione, però, ci portò a desistere, preferendo la strada della fecondazione assistita.
Così entrammo nel mondo della Fivet (Fecondazione in Vitro ed Embrio-Transfer).
Non so se a pesare fosse di più l’attesa, il dispendio di quasi tutti i nostri risparmi, senza che però raggiungessimo l’obiettivo prefissato, o la paura che l’amore non fosse tanto saldo dal riuscire a tenerci uniti, nonostante tutto.
Dopo quattro anni di tentativi, decidemmo di arrenderci.
Eravamo troppo provati, sia mentalmente che fisicamente, e non potevamo permettere al nostro sogno di distruggerci la vita.
La vera svolta si ebbe quando mia cugina Rebecca mi chiese di sostituirla per un giorno al canile della città, nel quale prestava volontariato.
Non sapevo che mi sarei innamorata di un musetto e di quegli occhi birbanti.
Telefonai immediatamente a Michele e gli chiesi di raggiungermi.
“Guardala, non è bellissima? Adottiamola. Si chiama Lilly. Dai, dai, dai. Dimmi di sì!”.
Non so se accettò perché non gli diedi il tempo di riflettere, o perché non mi vedeva così euforica da anni.
La portammo a casa con noi la sera stessa, e la nostra vita cambiò.
Dopo qualche tempo il veterinario ci spiegò che potevamo scegliere di farla sterilizzare.
La risata venne spontanea. Per quale motivo avremmo dovuto toglierle la possibilità di avere dei figli? Proprio noi che ne avevamo sempre desiderati, senza poterne avere.
Così, Lilly diede alla luce Stella e Vagabondo, allargando ancora di più la nostra famiglia.
So bene che la mia cucciola non è mia figlia, e che non dovrei chiamarla “amore di mamma”, o baciarla sul muso, eppure lei è stata la mia rinascita. Anzi, la nostra.
Ha rinsaldato un amore che, nonostante la sua prorompenza, iniziava a vacillare, perché il dolore e la paura logorano anche i sentimenti più forti. Ha riportato gioia ed entusiasmo in una casa.
Vi confesso un segreto. Qualche giorno fa ho sentito mia madre rivolgersi a lei chiamandola “tesoro di nonna”. Magari, inconsapevolmente, ha salvato anche la sua vita, e quella di mia suocera, sebbene all’inizio l’avessero accolta con un filo di delusione.
Ecco, ho mentito.
Non è vero che Lilly non è mia figlia. Voi come lo chiamate il primo pensiero al mattino e l’ultimo prima di addormentarvi?
Ho una figlia pelosetta, e un marito che ci ama. Anzi, ho persino due nipotini.
E pensare che alcuni mi definiscono sfortunata…
Mia madre e mia suocera presero a parlarsi sempre meno. Ciascuna delle due era convinta che questa fantomatica colpa fosse dell’altra parte.
Sebbene molte volte gli avessimo spiegato di non impicciarsi, continuarono a chiedere spiegazioni, accrescendo la loro rivalità.
Invece di aiutarci ad affrontare la vicenda, buttavano al vento anni di amicizia indissolubile, diventando sempre più ostili, tra loro e col mondo.
Intanto, noi cercavamo una soluzione. Diventare genitori era un sogno a cui non potevamo rinunciare.
Così prendemmo a seguire gli iter della stimolazione ovarica, con tutti gli oneri del caso.
Parallelamente, consultammo un’amica assistente sociale per chiederle consiglio su un’eventuale adozione.
Ci spiegò che, per cominciare, avremmo dovuto consegnare una serie di documenti al tribunale per minori d’appartenenza. Si trattava di certificati medici, il casellario giudiziale, la dichiarazione dei redditi, le buste paga, la dichiarazione di assenso all’adozione da parte dei nostri genitori.
Insomma, sembrava dovessimo sottoscrivere un mutuo.
L’idea che i tempi fossero lunghissimi, e che nessuno poteva garantirci che saremmo stati idonei ad un’adozione, però, ci portò a desistere, preferendo la strada della fecondazione assistita.
Così entrammo nel mondo della Fivet (Fecondazione in Vitro ed Embrio-Transfer).
Non so se a pesare fosse di più l’attesa, il dispendio di quasi tutti i nostri risparmi, senza che però raggiungessimo l’obiettivo prefissato, o la paura che l’amore non fosse tanto saldo dal riuscire a tenerci uniti, nonostante tutto.
Dopo quattro anni di tentativi, decidemmo di arrenderci.
Eravamo troppo provati, sia mentalmente che fisicamente, e non potevamo permettere al nostro sogno di distruggerci la vita.
La vera svolta si ebbe quando mia cugina Rebecca mi chiese di sostituirla per un giorno al canile della città, nel quale prestava volontariato.
Non sapevo che mi sarei innamorata di un musetto e di quegli occhi birbanti.
Telefonai immediatamente a Michele e gli chiesi di raggiungermi.
“Guardala, non è bellissima? Adottiamola. Si chiama Lilly. Dai, dai, dai. Dimmi di sì!”.
Non so se accettò perché non gli diedi il tempo di riflettere, o perché non mi vedeva così euforica da anni.
La portammo a casa con noi la sera stessa, e la nostra vita cambiò.
Dopo qualche tempo il veterinario ci spiegò che potevamo scegliere di farla sterilizzare.
La risata venne spontanea. Per quale motivo avremmo dovuto toglierle la possibilità di avere dei figli? Proprio noi che ne avevamo sempre desiderati, senza poterne avere.
Così, Lilly diede alla luce Stella e Vagabondo, allargando ancora di più la nostra famiglia.
So bene che la mia cucciola non è mia figlia, e che non dovrei chiamarla “amore di mamma”, o baciarla sul muso, eppure lei è stata la mia rinascita. Anzi, la nostra.
Ha rinsaldato un amore che, nonostante la sua prorompenza, iniziava a vacillare, perché il dolore e la paura logorano anche i sentimenti più forti. Ha riportato gioia ed entusiasmo in una casa.
Vi confesso un segreto. Qualche giorno fa ho sentito mia madre rivolgersi a lei chiamandola “tesoro di nonna”. Magari, inconsapevolmente, ha salvato anche la sua vita, e quella di mia suocera, sebbene all’inizio l’avessero accolta con un filo di delusione.
Ecco, ho mentito.
Non è vero che Lilly non è mia figlia. Voi come lo chiamate il primo pensiero al mattino e l’ultimo prima di addormentarvi?
Ho una figlia pelosetta, e un marito che ci ama. Anzi, ho persino due nipotini.
E pensare che alcuni mi definiscono sfortunata…
E' ispirata a una storia vera, giusto? Io ho conosciuto coppie che hanno avuto problemi ad avere figli, o non li hanno avuti per niente. E' un momento in cui veramente può crollare tutto addosso.
RispondiEliminaAnch'io ne conosco molte, e in minimissima parte ho vissuto questo dolore sulla mia pelle.
EliminaQuando decidemmo di avere Lorenzo, eravamo convinti, come quasi tutti, che essendo giovani sarebbero bastati pochi tentativi.
Invece, trascorsero sette lunghi mesi, e con loro l'ansia di non poter realizzare il nostro sogno.
Per fortuna era solo lo stress a giocarci un brutto scherzo, ma laddove ci sono patologie che inibiscono davvero la procreazione, dev'essere durissima.
Forse sono io che non mi rendo conto, ma non mi sono mai spiegato come possa rischiare di finire una relazione per mancanza di figli. Cioè, ok che è una cosa bellissima, e mandare avanti questa lurida razzaccia umana è quasi istintivo, di conservazione... ma... non so, spesso penso che le coppie abbiano BISOGNO di figli solo per continuare a tenersi uniti, come se sapessero che prima o poi l'amore finisce. Come se sia per forza un'unica via (e comunque si può ricorrere all'adozione, all'affido, eh!). Boh, davvero non me lo spiego...
RispondiEliminaMoz-
Nel caso del racconto, la coppia desiderava fortemente un figlio, pur amandosi moltissimo da tutta la vita.
EliminaÈ pur vero, però, che l'impossibilità di averne non dovrebbe raffreddare il rapporto, ma certe cose sono più facili a dirsi che a farsi.
Non lo so, Moz. E purtroppo l'adozione e l'affido in Italia sono molto complessi, come tante altre cose.
Sul fatto, invece, che l'amore sfiorisca sono assolutamente d'accordo. Con e senza figli.
Bellissima questa storia!
RispondiEliminahttps://julesonthemoon.blogspot.com/
Grazie e benvenuta.
EliminaPasso subito da te.
Da rimanere con il fiato sospeso.
RispondiEliminaEmozionante Claudia.
Grazie Gus.
EliminaBuona serata.
Storia raccontata magnificamente, te lo dice un irrimediabile cinico, ti faccio i miei più sinceri complimenti!
RispondiEliminaSulla parte del cane non posso sentirmi vicino perché sono intollerante agli animali domestici ma penso che prima o poi cederò, a prescindere se io e la mia lei avremo o meno la possibilità di avere figli (per ora non è previsto ma l'anno prossimo chissà), dato che lei non può proprio farne a meno, però sto cercando casa con giardino, dentro casa non li sopporto proprio!
Desidero un cane grosso e cattivo con gli intrusi, un vero e proprio cane da guardia!
Ti ringrazio per i complimenti.
EliminaAnch'io non amo gli animali in casa. Al massimo mi concederei un pesciolino rosso, anche perché abito in un appartamento. 😉