Ero sempre di corsa, presa dalla frenesia del mio lavoro.
Gestire un negozio tutto mio, tra fornitori, vendite, aperture straordinarie, inventario, e chi più ne ha più ne metta, non mi lasciava molto tempo da dedicare a me stessa, né tantomeno agli altri.
Mio marito cominciò a soffrirne, ma non diedi troppo peso alla cosa. In fondo, anche lui lavorava dodici ore al giorno nel bar di sua madre, e per me non era mai stato un problema.
Ci eravamo conosciuti e innamorati ben dodici anni prima, tra i banchi delle superiori, ma, per il grande passo, decidemmo di attendere un po’. Un bel po’.
Ci sposammo, infatti, in una fresca mattina di inizio settembre, nella chiesa che, entrambi, frequentavamo da bambini, dopo nove anni di fidanzamento.
Un matrimonio molto intimo. Gli sfarzi non facevano per noi.
Quel giorno, era lo sposo più bello che occhi umani avessero potuto ammirare.
Il fotografo ci disse che mai, nel suo mestiere, gli era capitato di dover chiedere ad una coppia di dividersi per qualche scatto. Di solito, infatti, gli si domanda di baciarsi o abbracciarsi, con tentata spontaneità, per immortalare la poesia del momento. Noi, invece, eravamo davvero inseparabili.
Avevo sempre fatto la commessa nella bottega del quartiere, ma quel lavoro iniziava a starmi stretto. Non ne potevo più di mostrarmi servile ad un titolare che, di certo, non annoverava la simpatia tra le proprie doti.
Insomma, due mesi dopo il fatidico sì, in accordo con Marco, decisi di tentare la scalata, aprendo un mio negozio di calzature.
All’inizio, lui ne fu felicissimo, tant’è che mi aiutava molto con la gestione, nei giorni in cui non doveva recarsi al bar.
Dopo appena sei mesi, però, cominciò a propinarmi l’idea della chiusura.
Credo fosse geloso del fatto che, in paese, si cominciasse a vociferare sulla cospicua presenza di clientela maschile che, in verità, a me era del tutto indifferente.
In ogni caso, davanti alla mia ferma opposizione, mise in campo un classico vincente, sicuramente, con la complicità di sua madre.
“Facciamo un figlio”, mi disse. “Io mando avanti il bar, e tu te ne prendi cura. Quando, poi, andrà all’asilo, magari potrai cercarti un nuovo lavoro part time.”.
Lo sapeva che non mi sentivo pronta. Non avrebbe dovuto chiedermelo. Eravamo così giovani, di tempo ce n’era. Le mie amiche non si erano ancora neppure sposate. Preferivo, prima, concentrarmi sul negozio. Allargare la famiglia non era ancora un priorità.
Non fu semplice convincerlo, ma, alla fine, assecondò i miei desideri.
E così passarono mesi, senza che ne parlassimo mai più.
Una mattina, mia sorella mi telefonò, in lacrime, per confidarmi di aver perso il lavoro.
Aveva paura di come l’avrebbero presa i miei, e mi chiese di aiutarla.
Stefania, più piccola di me di soli due anni, era sempre stata la mia migliore amica ma, nonostante fossimo quasi coetanee, l’avevo sempre trattata con un certo fare materno.
Le chiesi, infatti, di cominciare a lavorare per me, nel pomeriggio, in modo da lasciarmi del tempo per gestire la burocrazia e, perché no, anche la casa.
Ne fummo entusiaste entrambe. Marco un po’ meno.
Stavolta, seppur mentendo, fui i o a tirare in ballo l’eventualità di avere un figlio. Gli spiegai che, se Stefania avesse imparato a gestire il negozio, in futuro glielo avrei potuto affidare per qualche tempo, in modo da dedicarmi ad un progetto familiare.
Ecco. Noi donne sappiamo sempre come ottenere quel che vogliamo. Finalmente, anche lui fu felice della scelta fatta.
Il tempo passava veloce, ma, sebbene Stefania fosse abbastanza adatta al suo nuovo ruolo di commessa, preferivo non allontanarmi troppo dal negozio. Anzi.
Un amico di mio padre, rappresentante di un importante marchio di calzature, mi propose di allestire uno spazio espositivo, esclusivo per l’intera provincia, tra i miei scaffali. Sicuramente, questo avrebbe attirato clienti anche dai paesi limitrofi, incrementando le vendite.
Accettai. Ma, come sempre, non avevo considerato attentamente i pro e i contro.
Il prestigioso brand, infatti, richiedeva che io frequentassi un corso d’aggiornamento a 300 chilometri da casa, della durata di due mesi.
Chiesi a Marco di trasferirsi con me in una stanza per studenti che avevo già preso in considerazione, perché, materialmente, non potevo viaggiare così a lungo, ogni giorno.
Rifiutò. Mi disse che non se la sentiva di lasciare la madre sola al bar, e che, comunque, restando in paese, avrebbe potuto tenermi d’occhio il negozio, controllando che Stefania non combinasse guai.
Eh vabbè. Cosa potevano mai essere due mesi di lontananza, considerando che sarei tornata a casa ogni weekend? In fondo, eravamo già stati separati per un anno e mezzo, quando lui aveva deciso di partire volontario per il servizio militare.
Il primo mese volò. Non ebbi il tempo di tornare il sabato, come avevo promesso. Al telefono, però, Marco non mi sembrava troppo dispiaciuto. Anche lui era preso dai suoi impegni, e ne aveva approfittato per ricominciare a giocare a calcetto. Da adolescente era la sua passione, ma, purtroppo, quando a soli 17 anni rimase orfano di padre, per un terribile incidente stradale, decise di prendere il suo posto nel bar di famiglia.
Stefania, invece, mi rendicontava giornalmente tutte le vendite e le richieste dei miei clienti, incoraggiandomi a non mollare il corso, perché, comunque, da sola riusciva perfettamente a gestire il tutto.
Finalmente tornai a casa.
Era un caldo pomeriggio di fine agosto. Marco non era riuscito ad ottenere la giornata libera, ma non era un problema. Ci saremmo visti la sera, per cenare assieme.
Mi recai subito al negozio, ma non potevo minimamente sapere quel che avrei trovato.
Stefania mi corse incontro, abbracciandomi, e, piangendo, sussurrò: “Sono incinta!”.
Non sapevo neppure che lei avesse un fidanzato.
“Non lo sa nessuno – aggiunse – ti prego, non dirlo a mamma e papà”.
Immediatamente, pensai che si trattasse di una delle sue scappatelle e le chiesi se, almeno, conoscesse l’identità del padre.
“E’ Marco”, rispose.
Non capii. “Marco chi? Lo conosco?”, domandai. “Tuo marito!”.
Quelle due semplici parole mi tuonarono nella mente e nel cuore. La vista si annebbiò, le orecchie fischiarono. Svenni.
Mi risvegliai, un paio d’ore dopo, sul lettino del pronto soccorso, con una lieve commozione cerebrale.
I medici non si spiegavano perché mio marito piangesse così tanto, in fondo, me l’ero cavata con poco.
Non sapevano che la sua viltà lo consumava più di qualsiasi ferita.
Tornai a casa, il giorno dopo, senza dire una sola parola. Persino la radio dell’auto, malinconica, trasmetteva canzoni infelici.
Preparai, di fretta, i miei bagagli, mentre lui mi osservava silente.
Non gli chiesi una sola parola.
Non volevo sapere perché l’uomo che più amavo al mondo, avesse deciso di tradirmi con la donna a cui avrei affidato le chiavi della mia casa, e non solo.
Tuttora, non so se a bruciare di più era il dolore per il suo tradimento, o per quello di mia sorella.
Lui, almeno, poteva definirsi trascurato.
Lei, invece, era sempre stata trattata con l’ovatta da una sorella maggiore forse fin troppo amorevole nei suoi riguardi.
Sulla porta del negozio appesi un cartello con su scritto “chiuso per lutto, per sempre”. Tutti si chiesero chi fosse venuto a mancare nella mia famiglia. Non sapevano che a morire ero stata proprio io. Dentro.
Mi trasferii dall’altra parte dello stivale, a Milano, da un’amica avvocatessa che, dopo aver avviato le pratiche per il mio divorzio, mi avrebbe aiutata ad inserirmi in un negozio di nuova apertura, a due isolati da casa, dello stesso marchio che avrei dovuto vendere nel mio.
In paese, non tornai mai più.
Sono passati cinque anni da quel giorno.
So soltanto che ho una nipotina che si chiama Valentina, e che mai conoscerò.
Lei non ha nessuna colpa, ma i suoi genitori ne hanno una immensa.
Racconto pubblicato sul numero 14 di "Confidenze", del 27.03.2018
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